giovedì 25 ottobre 2012

Eataly

Ho buttato nel cesso il 90% della mia giornata. Spesa a fare nulla.
Pisolare sul divano. Poi a letto. Poi sul divano.
A vedere puntate già viste di "How it's made". E mentre scopro la meccanica dello straordinario tornio che leviga il manico delle stecche da biliardo mi viene in mente che forse potrei pensare a fare qualcosa di me oggi.
Ci penso su, mangio schifezze, bevo dalla borraccia. Faccio una specie di camping in casa mia.
E mentre Bear Grylls mangia vermi, caccia cinghiali e attraversa burroni con mezzi di fortuna io penso che... mah.. non lo so mica cosa voglio. Solo non stare così.
Allora mi sposto a letto.
L'amico Bear Grylls nel frattempo si è salvato ed ha raggiunto la civiltà.
Io che nella civiltà ci vivo vorrei attraversare il burrone al contrario.
Poi mi viene in mente che vorrei mangiare qualcosa che non mangio da tempo.
Me li cucinava mia nonna: i marubini!
Che il signore li abbia in gloria.
Mi organizzo e li raggiungo. Caldi, fumanti, li cospargo di formaggio gratuggiato...
Che meraviglia! Mi sono venute le lacrime agli occhi.
I sapori e i profumi della cucina di quand'ero piccino.
Innaffio con un buon vinello rosso con una gradazione indecente ed eccomi qui.
Ciò che rimane della giornata ha acquistato senso.
non ci voleva poi molto
charlieboy

domenica 21 ottobre 2012

ricordi maltesi


Cambia la stagione ma il mood invece prosegue nella sua traiettoria spietata e rettilinea. Il sentirmi nostalgico è, infin dei conti, una delle cose che reputo più normali. La sensazione è quella di camminare in bilico sul filo, una sensazione a tratti piacevole, che cerco di prolungare il più possibile e che innaffio con abbondanti pensieri riferiti al passato, riferiti a quegli eventi che ho vissuto e che non vorrei far tornare ma rivivere tali e quali ad allora, senza cambiare nulla. Senza sapere come sono andati a finire. Mi sento assolutamente così, privo del “senno di poi”. Attaccato al ricordo di qualcosa che c’è già stato. Lo posso accarezzare, posso valutarne i contorni, lasciare andare liberi i pensieri e fare riemergere dettagli vividi e nello stesso tempo insignificanti: io che guido nel traffico, una canzone, un profumo, un vestito, un sorriso, un percorso. I margini della persona che ero e che non sono più. Le cose cambiano solo per certi versi. Ora invece che non ho voglia di stare in mezzo alla gente (e quindi non lo faccio) ho come l’impressione di perdere terreno nei confronti dei “progressi” fatti prima. Di tutto quello che di buono ci può essere. Come se ogni volta ci fosse un punto che mi porta a ripartire da capo e con la lettera maiuscola. Le pulsioni scorrono sotto la superficie come vene che non si vedono, che non affiorano. In questo ho acquisito abilità e capacità. Riesco a tenerle lì, a renderle innocue, prive di quella spinta che può innescare il meccanismo, che può fare girare gli ingranaggi. E vivere tutti i giorni così diventa come guardare attraverso un binocolo, le immagini dei due occhi sembrano uguali ma sono in realtà abbastanza sfalsate da non coincidere mai. Con un occhio vedo quello che ho, con l’altro quello che vorrei. Penso di essere diventato talmente bravo da convincermi che quello che vorrei in realtà non esista. Farmene un ragione insomma. Allargare le braccia, mostrare i palmi e sollevare le spalle. Allora continuo a rovistare nei miei giorni e nei miei ricordi. E ricordo di aver già affrontato l’argomento con una persona che mi voleva bene. Ricordo di averglielo dolorosamente confidato mentre rimanevo stupito nel sentire le mie lacrime scendere abbondanti e inaspettate, come non succedeva da tempo. mentre rimanevo stupito nel vederla piangere del mio piccolo (o grande) dolore
charlieboy

mercoledì 3 ottobre 2012

La position du tireur couché

P., Anno Domini 2002

P., il portinaio, con cui passavo un sacco di tempo a parlare di storia, libri e politica, senza sentirmi però all’altezza della conversazione, mi aveva consigliato questo libro.
Le sue parole erano state: “Una narrativa di rara asprezza. L’autore non perde tempo in convenevoli".
Probabilmente aveva letto il libro in lingua originale.
In francese era stato pubblicato nel 1981, in italiano 11 anni dopo. 
Ero andato il giorno dopo, in libreria, a cercarlo. Una di quelle belle librerie universitarie, dove si trova di tutto. Libri usati, libri nuovi, fumetti, cancelleria, libri di testo. Un gran casino. Non sapevo dove cercare. Lo trovai tra un muro di libri dal dorso giallo. Quello che cercavo io era uno dei pochi con il dorso nero.  Un libricino piccolo. “Chissà..” pensai.
Tornai rapido verso la mia residenza pedalando sulla mia bicicletta verde oliva che, poco tempo dopo, mi avrebbero fregato (spero che le mie maledizioni abbiano colpito i testicoli del ladro). Effettivamente non so perché ricordi così bene quel pomeriggio.
I ricordi, e la cosa mi stupisce sempre, hanno la capacità di fissare dettagli vividi anche a distanza di tempo, anche per situazioni insignificanti.
Entrai nella mia squallida stanza, la 26. Faceva schifo e io non facevo nulla per migliorarla. Mi sdraiai sul letto e iniziai.
Era una bella giornata fuori. Cielo blu. Sentivo gli uccellini cinguettare.
Capitolo I. Poi lasciai perdere. Avevo da studiare.
La sera, a letto, nessuna voglia di leggere. Il vicino di stanza, alla numero 24, un bresciano figlio di ricco imprenditore, che scontava questa sua disgrazia frequentando il centro sociale con tanto di vestiti sciatti e atteggiamento da vero uomo di sinistra, stava scopando l’ ennessima vittima. Ci dava dentro parecchio.  Lei gradiva. Per fortuna non stava staccando una performance come quella della notte precedente ad un mio importante esame, qualche mese prima. Durante quella notte (che ricordo molto bene) mi fu impossibile dormire sia per la tensione pre-esame sia per i gemiti e i rumori tipici del coito violento del mio amato vicino. Il numero di rapporti, quella volta dell’esame, raggiunsero l’estenuante numero di quattro e in sequenza non proprio rapida; tali cioè da coprire le frequenze medio-alte dello spettro sonoro udibile e di buona parte della mia nottata.
“Si sarà calato un Viagra" pensai. E metteteci pure un po’ di invidia. Che non guasta mai.
Quella notte comunque riuscii ad addormentarmi e mi svegliai, al solito, verso le cinque. Zero sonno. Era il momento buono. Aprii il libro.
La lettura mi prese a tal punto che continuai fino al suono della sveglia.
“Cazzo.. devo andare a lezione” pensai quando si mise a suonare.
Doccia, colazione, bicicletta, aula universitaria, posti in fondo.
Il professore parlava di qualcosa, non so, non mi interessava minimamente. L’aula era una sorta di reliquia di metà del ‘900. Un anfiteatro di legno. Sui sottili e lunghi banchi semicircolari c’era scritto qualsiasi tipo di stronzata, dal “Ti amo tanto” al “Forza Inter”.
“Cristo, speravo che il liceo fosse davvero finito” mi ritrovavo a pensare ogni volta che leggevo quel genere di stronzate incise, a perenne memoria, nel legno.
Cosa ben peggiore, anni dopo, mi sarei ritrovato ad avere come colleghi di lavoro gli stessi possessori delle mani (e delle menti) in grado di incidere (e di pensare) tali cagate. [Il tempo non li ha migliorati… ma l’inaffondabile autostima li rende stranamente adatti al mondo del lavoro, alla vita terrena e pure all’atto della riproduzione, esattamente come il bresciano.]
E così, appoggiato al banco, non riuscivo a staccare gli occhi dal libro acquistato il giorno precedente e macinavo capitoli.
Ricordo i capitoli conclusivi letti mentre la lezione stava terminando.
“Ma che cazzo ci sono venuto a fare?” mi domandai. Effettivamente scendere dal letto dopo aver dormito praticamente nulla e fare di tutto per essere puntuali ad una lezione che si era già deciso di non seguire, non aveva molto senso. Ma ai  tempi vivevo ancora di “senso del dovere”. Cosa che poi, per fortuna, con il tempo, ho imparato a lasciare perdere. Roba per uomini d’onore, militari o religiosi e io non appartengo a nessuna delle 3 categorie.
Anche se ai tempi ci stavo ancora provando.
“Che libro!” pensai tra me e me con un’ espressione soddisfatta sul volto; la lezione era finita, qualcuno lasciava l’aula, qualcuno andava a fumare, qualcuno rimaneva al posto, vidi una ragazza, capelli rossi, occhiali dalla montatura blu guardarmi, voltare lo sguardo e salire le scale.
Stavo accarezzando la copertina. Era stato un grande acquisto.
“Ciao” mi disse.
Alzai lo sguardo ed era lì davanti a me.
“Ciao” risposi.
“Cosa leggi?” disse con un tono che tradiva un non trascurabile imbarazzo.
“E’ un libro che mi ha consigliato ieri un amico. Non riuscivo a smettere di leggerlo. Non mi era mai capitato”.
Non era mai capitato anche che una ragazza si facesse una scalinata per venire a chiedermi cosa stessi leggendo.
Parlammo, del più o del meno.
“A me piace molto Calvino” disse.
E poi entrò un altro professore. E cominciò un’altra lezione. Di cui non ricordo nulla.
Cominciò lì la mia amicizia con F.
Poi diventammo amanti e poi tornammo amici.
E lo siamo ancora.
 

Il libro?
“Posizione di tiro”. Jean Patrick Manchette. Ed. Einaudi tascabili. Collana Vertigo £ 15.000

L’ho riletto a distanza esatta di 10 anni. Ho esclamato ancora: “Che libro!” dopo aver sfogliato l’ultima pagina
charlieboy