lunedì 30 dicembre 2013

Bilancio (la fine dell'anno è chiaramente un pretesto)

La storia di chi il finale lo conosce già. in anticipo. di chi lo sa già della sensazione che avrò tra la lingua ed il palato nel momento in cui il sipario negherà la vista dei commedianti al pubblico. Mi trascino. Lentamente. Stanco. Di tutto. Di più. Me la sono imposta io tutta sta roba, ma questa è la mia conclusione. Il mio finale. Il crederci che, bè, infin dei conti c'ho messo un sacco di tempo per andare avanti, tornare indietro, andare avanti ancora e poi tornare ancora indietro. Il bilancio di tutti questi più e meno non lo so. Non mi interessa. C'è che guardo nel mio passato e alle volte mi giro dall'altra parte per non vedere quella cosa che vorrei cambiare, per quella cosa che non vorrei aver fatto, o detto, o tutte e due. C'è che la solitudine, come prezzo da pagare per l'idea che ho degli altri, della gente, alle volte pesa, come adesso, alle volte sembra un fardello troppo pesante, tanto che me ne vorrei disfare, per correre incontro alla prima persona che capita con le braccia larghe ed un sorriso stampato in faccia. 
Basta poco alle volte. Però dura poco ed il "basta poco" non basta più, pretendo ancora, ancora ed ancora di più ed è proprio in quel momento che mi volto e, non c'è più nessuno.
Se ne sono andati tutti. Ognuno se la porta dietro questa cosa. Ne sono convinto. Di quelli che la prendono come me però ne conosco pochi, li posso contare (me compreso) sulle dita di una mano. Fortunati? Io non credo. E non lo so perché ci sia tutta quest'ostinazione, questo pudore… forse pudore è la parola giusta nel cercare di essere onesti, con se stessi, con gli altri. Non è una bella cosa l'onestà, a ben vedere è una fonte quasi inesauribile di nemici, è granitica, fredda, cinica, lascia un tepore dentro che si scontra con tutto quello che porta via e che fa' pensare: "ma chi me lo fa' fare?".  
Penso che per un senso di egoismo innato serva più a me che agli altri, che saperla presente, nella mia vita giorno dopo giorno, mi faccia sentire un po' migliore di tutte quelle volte che, invece, ho deciso di piegarmi alla logica di "partito", di imparare la lezione a memoria, di applaudire un discorso ipocrita, di sorridere ad una cosa che non faceva per nulla ridere. L'onestà di dimostrare quello che sento io. Senza falsità, senza "dovrei fare", senza sovrastrutture. L'onestà, ho imparato in questi anni di lavoro, mi ha portato più guai che altro. Sono stato diffamato, su tutto, sono stato allontanato da certi ambienti perché non leccavo il culo a sufficienza, sono stato additato come quello che "fa solo il suo dovere" (come se non fosse già abbastanza sufficiente, ndr), sono stato messo in disparte perché la mia opinione l'ho sempre fatta presente, e non cavalcava quasi mai il pensiero nazionalpopolare. 
Non mi sono fatti molti amici in questi ultimi anni (a dire il vero neanche uno, ndr). 
E se trovo un trait d'union tra ora e l'inizio di tutti questi post (era l'agosto 2011), bè ci vedo un tentativo di guardarsi allo specchio, descrivendo quello che vedevo (e che vedo) senza passare dalla truccatrice o dal costumista. Ribadendo, alle volte, concetti arciripetuti. Perché ho bisogno di farmi coraggio ripetendomi un'idea, un concetto. Perché alle volte, sembra che tutto quello che sono, che tutto quello che ho dentro, sia sbagliato. E poi la paura e il perché del "dolore", della sofferenza. Anche questo ritorna spesso perché mi ci "schianto" e la soluzione non arriva. Probabilmente, non c'è.
Chi di Voi mi legge (e so per certo che qualcuno lo fa) conosce quella parte di me che traspare agli altri ma che, in modo così potente, non è mai saltata fuori. Non è mai saltata fuori con gli amici, i conoscenti, nemmeno con quelle che hanno deciso di frequentare il mio letto. Non è facile per me parlare così, di me, nella vita di tutti i giorni perché mi aspetterei un feedback che so per certo sarebbe disatteso o, peggio ancora, so che potrebbe essere utilizzato come "ricatto". Come: "Ma poi tu non eri quello che diceva…." ecc.ecc… 
Cose già viste, ahimè. Cose di cui sono già stufo.
Ecco perché nessuno/a sa di questo mio spazio.
Arriverà probabilmente il giorno in cui questi due lati della mia esistenza collimeranno, ma non sono ancora pronto.
Questo il bilancio del 2013 e forse un po' di più.
che il prossimo, 
sia uno splendido anno 
charlieboy

lunedì 23 dicembre 2013

Regalo di Natale (ovvero: 20 minuti)

Domani attacco in un posto nuovo.
Fisicamente nuovo. Le dinamiche e le persone che mi porto dietro non lo sono per niente.
Vabbè.
Ecco il mio regalo di Natale.
auguri
charlieboy

20 minuti - Offlaga disco pax (http://www.youtube.com/watch?v=2SrGiyUEPDM)

Mio padre è morto dopo 54 anni complicati
e un nome difficile da portare come un sorriso mai segnato da dubbi

non andavamo d'accordo

invecchiando trovo in me particolari di lui, alla mia età di adesso:
qualche segno delle mani, un'espressione allo specchio, un tono di voce

questa cosa non mi piace per niente

da quando se ne è andato ho un'eredità natalizia:

aveva un amico, un milanese conosciuto al servizio militare in Friuli
nei loro vent'anni
era l'inizio degli anni '60 e devono essere stati momenti di grande condivisione
e scoperta del mondo.
Questo tizio io l'ho visto solo due volte, da bambino
gente che aveva più borghesia e più boria di noi
L'ho reincontrato, quell'amico lontano, solo davanti al letto di mio padre morente.

Da allora quell'uomo ha deciso

che io sono mio padre

Ogni anno, la vigilia di Natale, chiama,
parla con me, venti minuti, di cose che non so
e di un periodo in cui non ero ancora nato.
Ha il tono cameratesco che usava con lui
e si sbaglia perfino a chiamarmi per nome.
Mi dice "ti ricordi quello li? quella là?"
esattamente come fossi lui.

Non ho mai condiviso le scelte di mio padre
l'ho odiato cordialmente.
Da sempre.
Ora che non c'è più, sono sereno.
Ho risolto le cose che avevo in sospeso.

Ma ogni anno sento una voce che parla di lui come una persona meravigliosa
e ne parla come non ne ho mai sentito parlare.
Non lo riconosco in quelle storie di amicizia
durata oltre la naturale scadenza.
Resto in silenzio davanti alla devozione di un signore che mi è estraneo.
Che chiama ogni tanto, da molto lontano.
E per pochissimo tempo.

E' una devozione che non è nemmeno paragonabile alla mia.
Che è quasi assente.

Venti minuti.
Non uno di più.

Anche stamattina.
Parla. Racconta. Quasi piange.
Si congeda e mi chiama col suo nome.
Poi si corregge. Mette giù.
Non era con me che voleva parlare.
Non era di me che aveva bisogno.

Mio padre, per tanto tempo,
mi ha telefonato solo una volta all'anno.
La vigilia di Natale.

Era l'unico gesto che si sentiva di fare nei miei riguardi,
vista l'evidente ostilità che gli riservavo.
Quella telefonata, fatta da nove chilometri,
freddi e distanti quanto lo stretto di Bering,
gli costava molto.

Ma non se la negava mai.

Un punto d'onore.

"Ciao figlio, tuo padre sta bene.
Fatti sentire ogni tanto.
Come sta tua madre?
Valla a trovare.
Almeno lei.
Ciao figlio, buon Natale"

Per uno come Metuccio, doveva essere uno sforzo grandissimo.
Ultraterreno.
Talmente grande che ancora non si è esaurito del tutto.



domenica 17 novembre 2013

democracy

Vorrei stanare le speranze rimaste sepolte chissà dove e prenderle a calci nel culo.
Sfigurarle, rispedirle lontano nel paese dei sogni, da dove sono venute, perché è chiaro che qui non funzionano.
E' chiaro che la mia è una crociata (persa in partenza) contro il dolore. Quella cosa che si genera su base nervosa, nocicettiva somatica o viscerale.
Quella roba che rende un uomo una larva, l'ombra di se stesso, l'antitesi della dignità.
Ma chi se ne fotte; infin dei conti qui ci sono io che invece di bestemmiare e spaccarmi le mani prendendo a pugni il muro mi sfogo stringendo forte questa matita del cazzo, tanto da generare un crampo giusto in mezzo alla mano.
Stringo i denti, bevo, mi agito ma non basta a farlo scomparire ne a dargli un senso.
E allora vaffanculo, faccio come dico io, dico di no, non vivo apposta, sciopero da me stesso.
Il dolore lo puoi pagare in un'unica soluzione oppure, come me, scontarla poco tutti i giorni.
Soffrire poco, piano piano, a rate.
Compiacersi nel prendere a calcinculo la speranza che non sono ancora riuscito a smantellare.
Non ho ancora capito il perché, ma non ho trovato qualcuno/a che "meriti" il mio dolore, la mia "sofferenza".
Alla fine, almeno a queste latitudini, ho l'impressione che l'aliquota di sofferenza sia più o meno uguale per tutti.
questa sì che è democrazia
charlieboy

mercoledì 6 novembre 2013

L'albero della memoria

Me lo scrivo giù, a matita, prima che le parole scappino via, una ancora una volta di fronte a cosa non lo so. Alle emozioni, forse.
Perché ho l'impressione che ci sia qualcuno, con i piedi ben piantati per terra che alza il brazzo e mi indica. E indica la strada che sto percorrendo, e lo fa come un po' come consiglio e un po' come gesto di approvazione. E' allora che sento tutta quest'emozione salire su e poi il sapore delle lacrime e il naso che cola.
Copio e in collo perché parole così non sono in grado di metterle in fila.
"...allora sentirai che ti chiamano, e li sentirai mormorare le ninna nanne della madri, ma portano un senso di dovere oscuro, antico e austero. L'orgoglio del lavoro ben fatto con le mani.
"Dammi un fiasco di rosso...ostia!" ti direbbero, se potessero parlare."

"A volte penso che la patria sia stata smantellata più dalla pace che dalla guerra. Ti chedi se ciò che ha portato alla disfatta di Caporetto non sia la stessa cosa che rende ingovernabile, oggi, il paese. Il prevalere dei furbi e dei passacarte.
La distanza incolmabile dei potenti dalla buona Italia di cui non si parla".

L'albero tra la trincee (DVD).
Memorie dalla prima guerra mondiale.
consigliato
charlieboy

sabato 2 novembre 2013

dilemma

Non ho ancora capito se è peggio accettare la propria natura oppure cercare di contrastarla.
Oggi come oggi mi risulta più facile la prima opzione.
in ogni caso si prova dolore
charlieboy

lunedì 28 ottobre 2013

Lazy

Non ho voglia di andare a fare la spesa, di cucinare, di lavare, stirare, buttare la spazzatura, non ho voglia di occuparmi di me, di allacciarmi le scarpe, di cambiare i maglioni, i jeans, di comprare delle scarpe che mi servirebbero, di aprire i libri, leggere, scrivere, suonare, parlare di persona o al telefono, non ho voglia di guardare la televisione, di ascoltare musica, di essere gentile o educato, di pensare a quello che pensano gli altri di me, di immedesimarmi, di manifestare sentimenti di dolcezza o semplicemente di empatia, perché non li provo ed ogni volta che ci provo finisco con il fingerli e magari piuttosto male, non ho voglia di pensare al lavoro ed ai miei più prossimi stravolgimenti, non ho voglia di pensare a tutta la merda che avrò da mangiare, perché ce n'è ancora tanta in dispensa per il sottoscritto. Ogni volta che mi sono trovato in una situazione critica ne sono sempre uscito un po' più rafforzato ma, si da il caso che non abbia voglia di pensare nemmeno a quello. Non ho voglia di pensare al mio futuro e nemmeno al fatto che non scrivo più perché non mi sembra di scrivere più nulla di speciale, che forse è anche vero, ma nemmeno di quello ho voglia. Non ho voglia di mangiare dolce, salato, speziato, piccante o agrodolce, non ho voglia di bere vino, birra, whisky, cognac, acqua o stravecchio. Non ho voglia di avere ragione, ne di avere torto. Non ho voglia di corteggiare una donna e poi scoprire che mi rompo il cazzo e darmi ragione perché lo sapevo dal primo momento che mi sarei rotto il cazzo e non ho voglia di sapere come va a finire. Non ho voglia di sollevare il sipario e non ho voglia di sapere che cosa ci si nasconde dietro. Non ho voglia di sentire cazzate, o gente che si giustifica, non ho voglia di sentire la voce altrui e nemmeno la mia. Non ho voglia di conoscere la soluzione, il processo logico per risolvere il problema. Non ho voglia di mentire, di fingere, di essere accomodante, razionale, lucido, e nemmeno ho voglia di giustificarmi.
Fondamentalmente sono pigro
charlieboy

martedì 24 settembre 2013

lunedì 16 settembre 2013

Il giorno prima

Le ombre si allungano e il mio muso pure.
Il "giorno prima" è un tema presente nel mio blog, il primo post l'ho scritto poco più di 2 anni fa, la sera prima di saltare a piè pari nel mondo del lavoro. Il "giorno prima" si ripresenta, perché alla fine ce n'è sempre uno.
Domani torno a lavorare dopo un bel po' di giorni lontano. Lontanissimo.
Ritrovo la situazione (quantomeno interiore) che avevo lasciato prima di partire, prima di chiudere la porta alle spalle pronunciando: "Fanculo" a denti stretti e con tanta rabbia mista a delusione, a disillusione e a schifo. Ecco qua.
Lo schifo di tutti i giorni; ma non è tanto quello che faccio che mi fa schifo.
Sono giunto alla conclusione che non è la parte operativa a "disturbarmi", potrei impilare mattoni, tirare bulloni, lavorare al tornio o in una tintoria... il feedback dall'attività manuale sarebbe sempre quello. Applicare un metodo, compiacersi nel "creare" qualche cosa.
Quello che mi schifa sul serio è avere a che fare con la gente, a rapportarmi con tutte quelle merde con cui divido il luogo di lavoro. Quello che trovo più pesante è esattamente questo, essere costretto a rapportarmi con gente che non stimo per nulla e con la quale non voglio avere nulla in condivisione.
E' questo che mi ammazza giorno per giorno, che rende le giornate lunghe, lunghissime, che rende il lavoro un conto alla rovescia prima di stimbrare per tornare a casa il prima possibile, ma per fare cosa? Magari per annoiarmi, magari per non fare nulla, dormire alle volte, alle volte andare in palestra o suonare... tutto pur di non stare la dentro. Non in mezzo a quella gente del cazzo. Tutti tronfi ed autoreferenziati, tutti pompatissimi per un mestiere che scopro, giorno per giorno appartenere ad individui abietti, dalla scarsa intelligenza, dalla moralità rovesciata...
Ci sguazzo in questa merda conscio di due cose, primo, ho sbagliato mestiere (e lo dico, tristemente, dopo un mucchio di anni buttati via a studiare cose di cui non mi frega un cazzo), secondo, temo che l'ambientino si ripresenti con le stesse modalità in tanti e tanti altri luoghi.
La cosa mi imbarazza e mi sconforta e mi fa pensare che soluzione non ce n'è, che c'è da mangiare merda perché qualcuno ha deciso così...
Astrarmi con tutte le mie "attività" non mi basta più, forse non mi è mai bastato ma aveva creato un diversivo per un certo tempo.
Ah, gli affari di cuore sono congelati, come i miei sentimenti. Riprende piede l' autodiagnosi di "narcisista", ma infin dei conti a quello non ci credo molto neanche io perché il narcisista non soffre. Io invece sì.
Sperpero il mio stipendio in attesa del cambio di umore che generalmente giunge puntuale ed "attesissimo" con l'autunno. Dicevano che con il passare degli anni si sarebbe ridotto, avrò modo di valutare.
bentornato
charlieboy


domenica 4 agosto 2013

Tempo n'è passato

Come spesso succede passo il mio tempo a pensare a quello che sono e ai motivi che mi hanno portato a diventare così.
Ultimamente mi è capitato di soffermarmi spesso a riflettere sulla mia ultima fase di vita, quella che va (grossolanamente) dal 2008 ad oggi, cioè da quando, stipendio permettendo, ho ottenuto una fonte di sussistenza sufficiente per vivere per conto mio, in un appartamento di sessanta metri quadri circa e con dei vicini di casa stronzi quanto basta.
Il vivere da solo rispondeva ad una mia precisa esigenza che però ho sempre faticato a contestualizzare, come tutte le cose che arrivano dal profondo faccio fatica a capire esattamente da dove traggano spunto, energia vitale.
Me la sono spiegata in tanti modi, come la risultante del mio carattere schivo, timido alle volte, come la via più semplice per farmi gli affari miei, come l'occasione per potere fare quello che voglio ecc...
Sono tutte un po' vere queste cose, ma, da qualche tempo si profila quella che forse è la versione più convincente del "perché adoro vivere nel mio appartamento" e cioè il rapporto con i miei genitori.
Con loro le cose sono cambiate da parecchio ed anche questa è stata la naturale evoluzione di un rapporto che non c'è più da molto tempo.
Mia madre con tutta la sua carica di perbenismo e di incoerenza, con la costante necessità di mostrare una perfezione inesistente, mostrare e dimostrare cose che agli altri non interessano minimamente, se non di facciata.
Mio padre con tutto il suo silenzio, con la sua rabbia che si caricava e che esplodeva puntuale e stereotipata sempre in certe occasioni, precisa e prevedibile come i rintocchi di una campana.
Si tratta solo di un modo rapido per descriverli, sono in realtà estremamente più complicati, ma più passa il tempo e meno mi interessa descriverli e meno mi interessa il rapporto (quantomeno strano) che esiste tra di loro.
Quello che ora mi ritrovo in mano di tutto il tempo passato con loro è la voglia di starmene per i fatti miei, la voglia di starmene abbastanza lontano da tutti, abbastanza per essere libero, o almeno per sentirmi tale.
Abbastanza per sentirmi lontano dai ricatti delle persone che ti stanno vicino e che dicono di volerti bene.
Eccola lì la risposta allora. Ecco il perché della solitudine, dello stare da solo, fondamentalmente la paura (e lo ammetto) della privazione della libertà, la paura che la persona vicino possa sfruttare questa vicinanza come ricatto, come: io ti do se tu mi dai.
In definitiva è così che sono stato abituato.
E' dal 2008 che questo processo ha preso piede con una consapevolezza mano a mano maggiore con la voglia di rendermi indipendente da questo modo di vedere le cose, con  la voglia di essere sempre più libero.
sempre messo che questo significhi ancora qualcosa
charlieboy

lunedì 8 luglio 2013

di ritorno

Ritorno dopo un po'.
Ritorno di ritorno dalle ferie.
Non che abbia combinato un granchè ma è passato abbastanza tempo da aver fatto su e giù ancora una volta.
E ancora una volta, ogni volta che riemergo, mi sembra che le cose siano un pochino più chiare di prima.
Una cosa su tutte però rimane, la mia singolarità, il mio confine netto con quello che sta attorno e che sembra sempre più allontanarsi, il fatto di essere sempre meno "contattabile", sempre meno "coinvolgibile" dagli eventi, dalle situazioni.
vabbè
buonanotte
charlieboy

venerdì 31 maggio 2013

Venceremos

Espiro lentamente attraverso le narici. L'odore dell'alcol sale attraverso i miei polmoni e porta all'attenzione dei miei centri olfattivi un lieve odore di vodka alla menta.
Sbevazzare è sempre piuttosto interessante.
Seguito a lavorare (quando sono sobrio),
a dormire, e fra questi due momenti a vivacchiare.
Esco per cena e mi trovo a parlare di lavoro mentre sul lavoro, per non parlare di lavoro, mi trovo a parlare di quello che farei se non stessi lavorando.
Spezzo il circolo vizioso investendo 1 euro nel giuoco del superenalotto, "sperando" di portare a casa qualche decina di milioni di euro in modo da permettermi di "realizzare" ciò che vorrei.
Cioè non lavorare, dormire fino a tardi, fare il cazzo che voglio e che mi piace fare (ultimamente la lista non è poi così lunga).
però non vinco mai
charlieboy

venerdì 3 maggio 2013

happy birthday

Non penso riuscirò a scrivere niente di nuovo, i pensieri girano nella testa ma poi sono sempre gli stessi.
Mi rimetto alla tastiera (Charlie Bukowski avrebbe detto "alla mitragliatrice") dopo tanto, dopo un sacco di occasioni dove c'ho provato, ma niente, le parole non riuscivano ad uscire oppure, viceversa, uscivano tutte insieme, disordinatamente, tutte incollate l'una alle altre.
Non faccio molto ultimamente se non lavorare e provare a non annoiarmi.
Lavorare, cercare di dormire almeno 7 ore per notte, cercare di anticipare il mal di testa assumendo in anticipo compresse di Ibuprofene da 200 mg e, contestualmente, cercando di smetterla di percorrere sempre gli stessi sentieri, gli stessi pensieri, la stessa sfiducia, la stessa paura, la stessa presentissima solitudine.
Sembra, vista da fuori una vita regolare, la mia. Dentro non lo è per niente.
Niente di scontato.
Niente di facile.
Ci penso su sempre, e lo rivendico. Adesso lo rivendico. Perchè anche se, lo ammetto e me ne vergogno, alle volte c'ho pensato a farmi saltare il cervello o a farmi fuori in qualche altro modo esotico, forse, ma ne sono quasi sicuro, questa parte di me che c'è scritta qui, anonima, eterea ed inafferrabile, è probabilmente la parte migliore di me.
E' quello che mi rende così. Pauroso, solitario, insoddisfatto ma definitivamente libero.
Lo vedo tutti i giorni, lo vedo nelle Shirley Temple che conosco o negli altri "bambini" prodigio che tutti i giorni recitano la lezioncina, tutti i giorni si mettono il grembiulino del bravo studentello del cazzo e che tutti i giorni fanno l'espressione interessata, come sarà capitato di fare a chiunque, almeno una volta.
Bè, sono sicuro che va peggio a loro.
Ne sono certo perchè dribblano l'argomento, non lo affrontano mai, preferiscono voltare lo sguardo, la faccia, facendo finta che non esista, che il grembiulino della scuola non lo indossano davvero.
Ed in mezzo alla mediocrità tutti si danno ragione, tutti si convincono che quello che vedono è diverso da quello che hanno di fronte, tutti si convincono che se sono così in tanti a ragionare così è perchè devono essere per forza, assolutamente, nel giusto.
Non sbavo più di rabbia come qualche tempo fa', la sensazione si è trasformata in una specie di interesse documentaristico, mettere di fronte il soggetto al fatto che la terra gira attorno al sole e non il contrario e vedere quale maestosa e splendida traiettoria traccerà questa volta per dirti che non è così, per illudersi ancora una volta che lui o lei (o tutti e 2) sono in tanti e, di sicuro sono molto, molto meglio di me.
Rimane un senso agrodolce in fondo al palato, tutte le volte, rimane una solitudine che ho colmato con tutto ciò che mi veniva in mente, rabbia, noia, tristezza, pugni in faccia, birra e gazzosa, bestemmie, soldi spesi male, parole e giustificazioni e cazzate dette da altre persone.
Rimane un vuoto che per quanto provo a riempire, si "svuota" sempre.
Sempre lì, a guardarmi in faccia. Sempre costante, a farmi capire che sarà sempre lì e che la compagnia perfetta per la mia solitudine non è altro che l'eco della mia voce che si riflette sulle sue pareti.
Bastarsi, ragionare solo come individuo.
I miei interessi e poi, i Vostri interessi, dove i miei interessi vengono sempre prima.
Dignità vista come adattamento, alle forme e alle situazioni. Sorridere quando c'è da farlo, inchinarsi al momento giusto.
Il galateo degli stronzi insomma.
Concludo con la frase che ho pronunciato nel modo più onesto che conosco ad una mia anziana collega: "vabbè vado... mi sono rotto i coglioni."
Mi sono voltato e l'ho vista sorridente. Ogni tanto qualcuno apprezza.
tanti auguri
charlieboy

domenica 14 aprile 2013

Barista...

Qualcuno riesce a fare di più, qualche altro di meno; e c'è chi prende un aereo e va nei lebbrosari di Calcutta, e c'è chi si trova a entrare nel foyer di Los Escudos e prende una camera e una birra gelata. L'importante, credo, sia non fingere; giocare la partita con le carte che si hanno in mano cercando di essere più buena gente che hijo de puta, sentendosi più vicini alla nobiltà di chi ha perso che all'arroganza di chi ha vinto, e più lontani dalla meschinità di chi ha perso che dalla generosità di chi ha vinto.
G.Bettinelli

Però,
è sempre dura
charlieboy

martedì 26 marzo 2013

la fermata del bus

Tutte le mattine esco di casa alla stessa ora.
Apro il portone e mi dirigo verso la fermata del bus.
Il numero 13.
Un cartello elettronico mi informa dei minuti da attendere.
L'unità di misura se la devono essere inventata perchè non ha un corrispettivo reale.
Ogni mattina si riunisce la famigliola che si dirige al lavoro.
E' fatta da persone che non conosco ma che, ogni mattina, si danno appuntamento nello stesso luogo, alla stessa ora. Manco fosse Natale.  Manco fosse Pasqua.
I partecipanti sono sempre gli stessi.
L'uomo di sessantanni, in pensione, che fuma fuori dalla sua Fiat Uno Verde parcheggiata sul marciapiede. Chissà perchè tutte la mattine si fa' trovare lì.
C'è un uomo senza età, Pall Mall in bocca, pantaloni della tuta blu, giacca nera, felpa con il cappuccio con delle strane scritte bianche. Scarpe marroni.
Veste sempre uguale e pesta i piedi.
Pesta i piedi e sembra tenere il ritmo mentre aspetta il bus.
Ma il ritmo non è mai preciso, sono movimenti sgraziati indice che non è a tempo, nemmeno lui.
C'è un'africana con il volto punteggiato dalle lentiggini, alle volte porta i capelli raccolti in un foulard colorato.
C'è un piccoletto con gli occhi di ghiaccio, alle volte si fa' accompagnare dal suo cane.
C'è un uomo sulla trentina, capelli scuri, unticci, scrocca sempre le sigarette all'uomo fuori tempo.
"Finchè ne ho te ne do" ho sentito dire all'uomo che tiene il ritmo.
Io uno così lo manderei affanculo invece.
C'è un uomo sulla cinquantina che stringe una ventiquattro ore di pelle marrone scuro, addosso un cappottone verde, di almeno trent'anni, lungo fino alle caviglie.
Sale sul bus e parla con l'autista.
O meglio.
Parla con tutti gli autisti.
Chissà cosa cazzo si devono raccontare.
C'è un uomo sui quarant'anni portati male, pochi denti in bocca, occhiali spessi, faccia simpatica, alle volte parla con l'uomo che pesta i piedi, alle volte si limita a lanciare sguardi rapidi a destra e a sinistra. Crede di essere discreto ma le lenti ingradiscono in modo esagerato le pupille e si fa sempre scoprire mentre ti fissa.
Ce ne sono altri.
Ma non tanti altri.
Siamo sempre noi, proprio come l'allegra famigliola che si riunisce per andare al lavoro.
Ogni giorno celebriamo quest'evento, scambiandoci occhiate di saluto senza nemmeno conoscerci.
Ogni giorno facciamo l'appello per vedere se ci siamo tutti.
Ogni giorno scendiamo
ognuno alla propria fermata
charlieboy

domenica 17 marzo 2013

L'accordatura

L'accordatura è il processo di regolazione di uno strumento musicale affinché sia perfettamente intonato rispetto al sistema di intonazione vigente o proprio allo strumento stesso.


La A14 scorreva pacifica. Poche macchine, pochi camion.

Il week end era in pieno corso.

Buio tutto intorno.

Sul sedile del passeggero reclinato sonnecchiavo.

Di tanto in tanto gli occhi si aprivano.

Sguardo pesante. Lenti a contatto appiccicate alle cornee.

Occhi stanchi.

Aspettavo il mio turno di guida.

Al volante mio padre.

Fissavo il tetto dell'automobile e sorridevo di sottecchi.

Mi divertiva l'idea di quel viaggio su e giù per l'Italia con mio padre.

Un migliaio di km in un giorno.

Forse avremmo potuto evitarceli.

Ma era tardi per questo tipo di pensieri.

Il motivo del viaggio di andata era un concerto in cui dovevo dovevo suonare.

Un festival dedicato alla musica soul, gospel ecc..

Il motivo del viaggio di ritorno, nello stesso giorno, era il ritiro di una borsa di studio.

La prima che avessi mai vinto.

Un evento in un certo senso.

Ai tempi militavo in una band funky-reggae.

Dei bravi musicisti (ero il più giovane della band) mi avevano svezzato ed educato musicalmente.

Ero stato contattato nel lontano Febbraio del 2003 da un batterista (con mio sommo stupore vestiva pure abiti talari) che mi aveva proposto di far parte di una band, creata all'uopo (ho sempre sognato di usare questo termine), che avrebbe dovuto accompagnare una cantante gospel.

Accettai con la solita paura di non essere all'altezza del compito.

Al solito trovavo gli altri musicisti bravissimi, svegli e più rapidi di me.

Mi consolavo con il fatto che non fosse la mia professione.

Le prime prove andarono bene, il prete non era certo il batterista migliore con cui avessi suonato però pestava come un fabbro. :)

Arrivò il giorno della prova con la cantante.

Un cioccolatino americano di circa 100 kg con una voce sottile sottile.

Che spettacolo.

Poche parole e con il solo timbro della voce riusciva ad imporre il silenzio agli ascoltatori.. e pure ai musicisti.

Qualche settimana dopo, il giorno del concerto.

Al sound check tutto bene.

Io di sound check non c'ho mai capito un cazzo.

Tutto quello che mi diceva il fonico (chiunque esso fosse) a me è sempre andato bene.

L'unica cosa è che ogni tanto, per dare l'impressione di capirci un sacco di mixaggio, saltavo fuori con frasi tipo: "Alzeresti un po' di più le frequenze medio-basse? Vorrei dare un po' di "punta" al suono" oppure "Mi alzi un po' la cassa in spia?".

Al che il fonico smanettava qualche potenziomentro e voilà.. il suono si appuntiva un po' di più o la cassa si faceva un po' più presente.

Al sound check il palatenda predisposto si presentava ovviamente vuoto.

Qualche posto occupato da altri musicisti.

Nei posti in fondo nella sua tipica posa, mio padre, con le gambe accavallate e le braccia allungate sui sedili adiacenti.

Si annoiava? Chi lo sa.

Si guardava attorno. E poi tornava a fissare il palco.

E' sempre stato imperscrutabile.

Dopo di noi altri artisti.

Rimanevo a bocca aperta, gente bravissima.

Ad un certo punto compare un pianista, capelli bianchi, attacca a suonare.

Che roba.

"E' Mark Harris!" mi dice il batterista.

Compare una cantante, capelli neri, bruttina.

Da lontano non mi dice niente.

Avvicina il microfono e parte.

Cazzo che voce.

Ma è Antonella Ruggiero.

E via a godermi il sound check.

Terminato il tutto, l'organizzazione del festival prevedeva una pranzo con tutti i musicisti.

Mi trovo circondato da musicisti professionisti e con un cartellino che penzola dal mio collo con scritto: "Artista."

Io artista? Ma che siamo matti!?

Divertito da questo fatto mi intrufolai nella conversazione.

Il tizio in parte a me era un napoletano simpatico.

Tu cosa fai, dove vivi... insomma le solite cose.

Io mi presentai: "Sono uno studente universitario".

Lui invece era il tastierista di Lucio Dalla.

"Ma che cazzo ci faccio io qui in mezzo??" mi chiesi per l'ennesima volta.

Cercai di superare l'imbarazzo e di farmi coraggio.

Sentivo la tensione crescere.

Eppure non era la prima volta su un palco.

La giornata se ne andò veloce.

Arrivò la sera. Palatenda pieno. Cinquemila persone circa.

Mai suonato di fronte a tanta gente.

I gruppi si alternavano.

Poi il nostro turno.

Sentivo le dita pesanti.

Avevo ricontrollato l'accordatura un paio di volte.

Fummo chiamati sul palco.

Le gambe si pietrificarono.

Movimenti meccanici per salire i gradini...

La band che ci aveva preceduto scendeva dal palco mentre noi salivamo.

“In bocca al lupo” ci dissero.

Il batterista della band che ci aveva preceduto urtò il mio strumento.

Mi chiese scusa.

Sul palco.

Luci in faccia.

Strizzai gli occhi.

Misi a fuoco.

Un mucchio di gente.

“Sono un artista...” ripetei ricordarndo il cartellino.

Attaccai il jack.

Regolai il volume, il gain.

Equalizzai.

Bassi, medi, pochi alti.

Giusto il necessario.

Pizzicai due Mi bassi.

Suono appuntito proprio come da sound check.

Tutto ok.

Intro di chitarra.

Charleston, cassa, rullante.

Il caro vecchio quattro quarti.

E via...

La cantante attaccò con la sua splendida voce.

Glissai un Sol suonato sulla terza corda e steccai di brutto.

“Merda!” pensai.

Maledetto batterista!

Urtandomi mi aveva scordato la terza corda e io non me n'ero accorto.

Era troppo tardi per recuperare.

Ciò significava che oltre alla tensione dovevo pure pensare a non utilizzare una corda.

Il che rendeva decisamente tutto più complicato.

Me la cavai.

Eravamo la band che chiudeva il concerto.

Salirono tutti sul palco.

Pure Mark Harris.

Cantavano tutti e, anche solo per un pezzo, posso dire di avere suonato con Antonella Ruggiero.

Di averla accompagnata con un basso scordato.

Il festival si chiuse sulle nostre note.

"Ma dai rimani.." mi disse il batterista.

Non potevo.

E poi io e mio padre in macchina.

Un viaggio lungo mezza Italia di notte.

Lui che guida fino alle quattro e poi prendo il volante io.

In macchina poche parole.

Ore sette.

Giungiamo a destinazione.

Ore dieci e trenta ritiro il premio nella mia città natale con tanto di discorso e premiazione con il sindaco.

Rimaneva negli occhi e nelle orecchie il concerto e tutte le cose belle sentite, Mark Harris, Antonella Ruggiero, il tasterista di Lucio Dalla, il silenzio del viaggio con mio padre e la stecca con un basso non accordato.

stonato,
come sempre

charlieboy

domenica 10 marzo 2013

ad aspettare

vedo i miei rimpianti da lontano.
Come se appartenessero a qualcun'altro o meglio, come se non mi appartenessero più.
Mi resetto su ritmi di vita decisamente più "sani" e la sera, a letto con l'abat jour accesa, fisso il soffitto e mi fermo a pensare a quello che non sento più.
Come se l'avessi perso per strada, come se non facesse più male, come se, in modo del tutto incosapevole l'avessi risolto.
Alle volte rispiegarsi il perchè di certe cose è troppo complicato, è troppo lungo o semplicemente richiede troppe parole.
Anni e persone scivolate via, manco si trattasse che di pochi fotogrammi.
Guardo avanti e non c'è preoccupazione, ma solo un serenissimo punto interrogativo.
Nonostante lavori e nonostante sia già parecchio incasellato nella spirale lavoro-denaro affermo che non so ancora assolutamente cosa fare della mia esistenza.
Conduco la mia quotidianità o è la quotidianità a condurmi? Il dubbio è presentissimo.
Tengo aperti certi spiragli.
Altri li chiudo senza alcun dubbio.
Ho sempre l'impressione di vivere
aspettando sempre qualche cosa
charlieboy

martedì 5 marzo 2013

di più

Scrivo sempre le stesse cose.
Forse perchè penso sempre le stesse cose.
Penso sempre le stesse cose perchè non trovo una soluzione.
Non trovo le motivazioni e la forza per trovare un motivo in più del fottuto stipendio per andare ad immergermi in una realtà chiamata lavoro tutti i giorni.
Una realtà di mediocri.
Di gente mediocre.
Che di conseguenza ha fatto dell'invidia, del rosicare, "dell'odio", "their finest art".
Per dirla come direbbe Charles Bukowski.
Lui, che era tutto fuorchè un mediocre, seppelliva il suo disagio e quindi il suo dolore sotto litri di alcol. E poi le corse dei cavalli e le scopate di qua e di la.
Io non  so dove sbattere la testa.
Mi farei spedire su marte per evitare di vedere, di interagire, anche solo di parlare con certa gente.
Ma mi accorgo che tutta la pesantezza che sento dentro non se ne andrà, questa volta, scrivendo queste righe.
Il lavoro mi spaventa perchè temo che mi istituzionalizzerà prima o poi.
Che mi toglierà, più che darmi.
Che mi renderà uno zombie del cazzo, fottuto dai colleghi, dai responsabili, dai direttori e da tutte quelle teste di cazzo che sollevano per aria il dito indice ed esclamano: "così si fa'".
E quel che è peggio, fottuto lentamente. Un giorno alla volta.
Perchè quella gente la vedo tutti i giorni e so bene che non vale un cazzo.
E lo so perchè lo dimostra tutti i giorni.
Forse dovrei riuscire a dare molto di più.
A fare molto di più.
Ma questo è il meglio che mi riesce.
Forse dovrei bere di più.
O scommettere di più.
o scopare di più.
charlieboy

lunedì 11 febbraio 2013

Gli idonei

Vedo gli altri vivere la loro vita del cazzo.
Più l'individuo è abietto.
Più l'individuo è ripugnante.
Migliore sembra essere la vita che conduce.
Mi sbavo addosso tonnellate di rabbia.
Di nosense.
Già.
Perchè non lo capisco mica.
Perchè tutto il dolore che vedo?
Perchè i più idonei sembrano per forza i peggiori?
Qualcuno prima o poi dovrà darmi una spiegazione perchè io non la trovo.
Fatico a mettere assieme i passi.
E mi pesa mettere un piede avanti all'altro ed andare avanti.
e mi pesa ascoltare soltanto la mia voce
charlieboy


I "salvati" del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l'esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della "zona grigia", le spie. Non era una regola certa (non c'erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri.
Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti;
i migliori sono morti tutti.

Primo Levi - I sommersi e i salvati

lunedì 4 febbraio 2013

Cubetti di ghiaccio

La macchina del pane sta scaldando la mia pagnotta settimanale.
Mezzo chilo di pane integrale che ogni volta emana un odore buonissimo.
Mi svacco in attesa di sfornarlo. Leggo. Mi faccio un ginger con un po' di cubetti di ghiaccio.
Lo vedo frizzare e poi giù. Buonissimo.
Guardo i cubetti sul fondo.
Ne sgranocchio uno.
Appoggio il bicchiere e mi ritrovo bambino.
7 anni.
In vacanza.
Riviera romagnola.
La settimana di villeggiatura.
Mia madre, giovanissima, a tavola insieme a me e a mia sorella.
Mio padre rimasto a casa per lavorare.
A tavola ogni giorno mi si offriva una specie di spettacolo su coloro che popolavano l'albergo.
Era divertente.
Guardavo come sulla poltrona di un cinema le altre persone, le altre coppie, le altre famiglie, i camerieri.
Era più di un cinema.
C'erano anche gli odori, i rumori delle posate sui piatti, un vociare continuo e costante di sottofondo e il forte odore di tabacco.
Davanti a me una coppia, lei non la ricordo bene, forse bionda (tinta) sui sessanta, o forse era più giovane e li portava male, non lo so.
Mi sembra di ricordarla nella sala da pranzo con addosso un vestito bianco, lievemente sovrappeso.
Lui, abbronzatissimo, un po' calvo, con i capelli grigissimi, come il fumo della sigaretta che continuava a portarsi alla bocca.
Occhiali. Denti gialli. Sessantanni anche lui. Camicia celeste a maniche corte. Pantaloncini. Vene bluastre sui polpacci. Mi guardava a mi sorrideva.
A 7 anni pensavo che gli altri non notassero il mio sguardo. E invece non era così.
Ma non lo mollavo però.
Chino sul tavolo mangiava.
Un boccone e poi un tiro di sigaretta.
Il posacenere nell'arco di un pranzo o di una cena si riempiva sempre.
Osservavo questo strano essere nutrirsi di cibo e di fumo.
E rimanevo sempre infastidito.
Ma non erano le sigarette. Quelle semmai mi avrebbero incuriosito.
Mi infastidiva il fatto che l'uomo con la sua sigaretta si alzasse e riempisse una coppetta di metallo con un quantitativo esagerato di cubetti di ghiaccio che si trovavano, in un freezer, in prossimità del buffet.
Tornava a tavola e ne utilizzava solo due o tre.
Gli altri rimanevano lì. A soffrire. Ad assorbire il calore dell' estate di metà anni '80 e delle sue sigarette.
A fine del pranzo la coppetta traboccava di tante piccole salme biancastre rimpicciolite dal calore, annegate nel liquido in cui, di li a poco, si sarebbero trasformate.
Quei cubetti era come se mi chiamassero, era come se mi chiedessero aiuto.
"Salvaci... ti prego!" pensavo tra e me e me.
Ma non potevo fare nulla per loro.
Per tutta la vacanza l'uomo con la sigaretta mi ha tormentato con la sua strage di cubetti di ghiaccio e io provavo risentimento nei suoi confronti per tutta la sofferenza causata.
Come poteva non capire? Come poteva essere così insensibile?
Non lo so.
Mesi dopo, in occasione di una cena organizzata a casa dai miei genitori, non so come, con gli ospiti si entrò sull'argomento vacanze.
Ricordo che mia madre descrisse l'uomo che fumava come il più incallito fumatore che avesse mai visto.
Anche io lo ricordavo ma per un altro motivo, aggiunsi quindi: "E poi prendeva sempre troppo ghiaccio!".
Lei rispose: "E questo cosa c'entra?".
Ecco, nemmeno lei aveva capito.
Gli ospiti mi sorrisero.
Nemmeno lei aveva capito la sofferenza di tutti quei cubetti.
Immolati così, senza un vero motivo.
Questo il mio primo ricordo di non essere compreso.
Sorrido mentre ci ripenso.
E penso che, cubetti di ghiaccio a parte, non sono forse così cambiato da allora.
Sgranocchio i cubetti di ghiaccio lasciati sul fondo del bicchiere di ginger e sforno il pane.
oggi nessuno ha sofferto invano
charlieboy

giovedì 17 gennaio 2013

Martinez Vs Chavez Jr

Ma no ma no.
Tutto da rifare.
Solo che non ne ho voglia.
Il filone:"Le memorie di un depresso" ..ritorna.
Sai che gioia poterne scrivere!
Il vuoto dentro.
Il vuoto fuori.
Un senso di vuoto proprio lì, in fondo alla gola.
Prima non ci pensavo, non me ne accorgevo neanche. Era la mia normalità.
Poi invece la reazione, provare a capire, spiegarsi il perchè del vuoto, di questa cosa che non ce la fa nemmeno ad avvicinarsi al concetto di dolore.
Adesso invece di reagire non se ne parla.
Ammetto che sono così e che forse non serve a molto scalciare o provare a cambiare, perchè per quanta strada possa avere fatto ritorno sempre qui.
Ci sarà un motivo?
Già. E il solo pensarci mi mette tristezza.
E mi mette ancor più tristezza sapere che ritornerà ancora e poi ancora e poi ancora.
Perchè la mia deriva mi porta ad arrivare qua e io non ho voglia ogni volta di rifare tutto daccapo.
Ricominciare ogni volta, per ogni piccolo dettaglio, per una delusione o per un cambio di stagione.
All'idea di provare a scrollarmi tutto di dosso spunta la sensatissima domanda: "Perchè mai? Tanto ritornerebbe prima o poi".
Ho provato a scavare dentro di me, a cercare nel mio passato, nel mio presente e nel mio futuro per cercare una soluzione. Per cambiare davvero.
Ma niente. Tutto torna.
Qualcuno se la spiega con certi livelli di certi neuromediatori, qualcun'altro dice che è la famiglia, l'educazione, la pressione sociale, il lavoro oppure qualcun'altro laconico grugnisce un: "che ti lamenti a fare?".
Il solito. Al solito.
Mentre lascio l'impronta sul divano mi guardo Martinez Vs Chavez Jr.
ma già lo so come finirà
charlieboy

domenica 6 gennaio 2013

Il diritto alla felicità

Ricordo di averlo pensato e di averlo detto, ad alta voce, in presenza di testimoni: "penso di avere il diritto ad essere felice".
A ben vedere questo "diritto"
non esiste
charlieboy


Ma proprio sulla felicità, parola proibita, che non dovrebbe essere mai pronunciata, l'Illuminismo ha fatto il suo più grave e definitivo errore psicologico, una sorta di "norma di chiusura", per dirla come lo Zietelmann, che blinda il sistema nella sua paranoia. Ha proclamato il "diritto alla felicità".
Per la verità non è arrivato a tanto, ha sancito "il diritto alla ricerca della felicià" (pursuit of happiness), come sta scritto nella Dichiarazione di Indipendenza americana (1776). Ma a livello di massa questo è stato introiettato com e un diritto a essere felici.
Pensare che l'uomo abbia un "diritto alla felicità" significa renderlo, ipso facto e per ciò stesso, infelice. La sapienza antica era consapevole che la vita è innanzi tutto fatica e dolore, per cui tutto ciò che vi sfugge è grasso che cola.
"La vita oscilla fra noia e dolore" può affermarlo solo Schopenhauer, rentier già corrotto dal benessere. Per ribaltare ancora la battuta di Mefistofele: l'uomo occidentale volendo e cercando ossessivamente il Bene, anzi il Meglio, si è creato con le sue stesse mani, il meccanismo perfetto e infallibile dell'infelicità.
Ma questo cappio, questo nodo scorsoio, non ci siamo accontentati di stringerlo interno al nostro collo. Lo abbiamo esportato, e continuiamo ad esportarlo, con coerenza omicida, nell'universo mondo. Nulla deve rimanere "altro da noi".
- Massimo Fini "Sudditi" ed. Marsilio -