martedì 26 marzo 2013

la fermata del bus

Tutte le mattine esco di casa alla stessa ora.
Apro il portone e mi dirigo verso la fermata del bus.
Il numero 13.
Un cartello elettronico mi informa dei minuti da attendere.
L'unità di misura se la devono essere inventata perchè non ha un corrispettivo reale.
Ogni mattina si riunisce la famigliola che si dirige al lavoro.
E' fatta da persone che non conosco ma che, ogni mattina, si danno appuntamento nello stesso luogo, alla stessa ora. Manco fosse Natale.  Manco fosse Pasqua.
I partecipanti sono sempre gli stessi.
L'uomo di sessantanni, in pensione, che fuma fuori dalla sua Fiat Uno Verde parcheggiata sul marciapiede. Chissà perchè tutte la mattine si fa' trovare lì.
C'è un uomo senza età, Pall Mall in bocca, pantaloni della tuta blu, giacca nera, felpa con il cappuccio con delle strane scritte bianche. Scarpe marroni.
Veste sempre uguale e pesta i piedi.
Pesta i piedi e sembra tenere il ritmo mentre aspetta il bus.
Ma il ritmo non è mai preciso, sono movimenti sgraziati indice che non è a tempo, nemmeno lui.
C'è un'africana con il volto punteggiato dalle lentiggini, alle volte porta i capelli raccolti in un foulard colorato.
C'è un piccoletto con gli occhi di ghiaccio, alle volte si fa' accompagnare dal suo cane.
C'è un uomo sulla trentina, capelli scuri, unticci, scrocca sempre le sigarette all'uomo fuori tempo.
"Finchè ne ho te ne do" ho sentito dire all'uomo che tiene il ritmo.
Io uno così lo manderei affanculo invece.
C'è un uomo sulla cinquantina che stringe una ventiquattro ore di pelle marrone scuro, addosso un cappottone verde, di almeno trent'anni, lungo fino alle caviglie.
Sale sul bus e parla con l'autista.
O meglio.
Parla con tutti gli autisti.
Chissà cosa cazzo si devono raccontare.
C'è un uomo sui quarant'anni portati male, pochi denti in bocca, occhiali spessi, faccia simpatica, alle volte parla con l'uomo che pesta i piedi, alle volte si limita a lanciare sguardi rapidi a destra e a sinistra. Crede di essere discreto ma le lenti ingradiscono in modo esagerato le pupille e si fa sempre scoprire mentre ti fissa.
Ce ne sono altri.
Ma non tanti altri.
Siamo sempre noi, proprio come l'allegra famigliola che si riunisce per andare al lavoro.
Ogni giorno celebriamo quest'evento, scambiandoci occhiate di saluto senza nemmeno conoscerci.
Ogni giorno facciamo l'appello per vedere se ci siamo tutti.
Ogni giorno scendiamo
ognuno alla propria fermata
charlieboy

domenica 17 marzo 2013

L'accordatura

L'accordatura è il processo di regolazione di uno strumento musicale affinché sia perfettamente intonato rispetto al sistema di intonazione vigente o proprio allo strumento stesso.


La A14 scorreva pacifica. Poche macchine, pochi camion.

Il week end era in pieno corso.

Buio tutto intorno.

Sul sedile del passeggero reclinato sonnecchiavo.

Di tanto in tanto gli occhi si aprivano.

Sguardo pesante. Lenti a contatto appiccicate alle cornee.

Occhi stanchi.

Aspettavo il mio turno di guida.

Al volante mio padre.

Fissavo il tetto dell'automobile e sorridevo di sottecchi.

Mi divertiva l'idea di quel viaggio su e giù per l'Italia con mio padre.

Un migliaio di km in un giorno.

Forse avremmo potuto evitarceli.

Ma era tardi per questo tipo di pensieri.

Il motivo del viaggio di andata era un concerto in cui dovevo dovevo suonare.

Un festival dedicato alla musica soul, gospel ecc..

Il motivo del viaggio di ritorno, nello stesso giorno, era il ritiro di una borsa di studio.

La prima che avessi mai vinto.

Un evento in un certo senso.

Ai tempi militavo in una band funky-reggae.

Dei bravi musicisti (ero il più giovane della band) mi avevano svezzato ed educato musicalmente.

Ero stato contattato nel lontano Febbraio del 2003 da un batterista (con mio sommo stupore vestiva pure abiti talari) che mi aveva proposto di far parte di una band, creata all'uopo (ho sempre sognato di usare questo termine), che avrebbe dovuto accompagnare una cantante gospel.

Accettai con la solita paura di non essere all'altezza del compito.

Al solito trovavo gli altri musicisti bravissimi, svegli e più rapidi di me.

Mi consolavo con il fatto che non fosse la mia professione.

Le prime prove andarono bene, il prete non era certo il batterista migliore con cui avessi suonato però pestava come un fabbro. :)

Arrivò il giorno della prova con la cantante.

Un cioccolatino americano di circa 100 kg con una voce sottile sottile.

Che spettacolo.

Poche parole e con il solo timbro della voce riusciva ad imporre il silenzio agli ascoltatori.. e pure ai musicisti.

Qualche settimana dopo, il giorno del concerto.

Al sound check tutto bene.

Io di sound check non c'ho mai capito un cazzo.

Tutto quello che mi diceva il fonico (chiunque esso fosse) a me è sempre andato bene.

L'unica cosa è che ogni tanto, per dare l'impressione di capirci un sacco di mixaggio, saltavo fuori con frasi tipo: "Alzeresti un po' di più le frequenze medio-basse? Vorrei dare un po' di "punta" al suono" oppure "Mi alzi un po' la cassa in spia?".

Al che il fonico smanettava qualche potenziomentro e voilà.. il suono si appuntiva un po' di più o la cassa si faceva un po' più presente.

Al sound check il palatenda predisposto si presentava ovviamente vuoto.

Qualche posto occupato da altri musicisti.

Nei posti in fondo nella sua tipica posa, mio padre, con le gambe accavallate e le braccia allungate sui sedili adiacenti.

Si annoiava? Chi lo sa.

Si guardava attorno. E poi tornava a fissare il palco.

E' sempre stato imperscrutabile.

Dopo di noi altri artisti.

Rimanevo a bocca aperta, gente bravissima.

Ad un certo punto compare un pianista, capelli bianchi, attacca a suonare.

Che roba.

"E' Mark Harris!" mi dice il batterista.

Compare una cantante, capelli neri, bruttina.

Da lontano non mi dice niente.

Avvicina il microfono e parte.

Cazzo che voce.

Ma è Antonella Ruggiero.

E via a godermi il sound check.

Terminato il tutto, l'organizzazione del festival prevedeva una pranzo con tutti i musicisti.

Mi trovo circondato da musicisti professionisti e con un cartellino che penzola dal mio collo con scritto: "Artista."

Io artista? Ma che siamo matti!?

Divertito da questo fatto mi intrufolai nella conversazione.

Il tizio in parte a me era un napoletano simpatico.

Tu cosa fai, dove vivi... insomma le solite cose.

Io mi presentai: "Sono uno studente universitario".

Lui invece era il tastierista di Lucio Dalla.

"Ma che cazzo ci faccio io qui in mezzo??" mi chiesi per l'ennesima volta.

Cercai di superare l'imbarazzo e di farmi coraggio.

Sentivo la tensione crescere.

Eppure non era la prima volta su un palco.

La giornata se ne andò veloce.

Arrivò la sera. Palatenda pieno. Cinquemila persone circa.

Mai suonato di fronte a tanta gente.

I gruppi si alternavano.

Poi il nostro turno.

Sentivo le dita pesanti.

Avevo ricontrollato l'accordatura un paio di volte.

Fummo chiamati sul palco.

Le gambe si pietrificarono.

Movimenti meccanici per salire i gradini...

La band che ci aveva preceduto scendeva dal palco mentre noi salivamo.

“In bocca al lupo” ci dissero.

Il batterista della band che ci aveva preceduto urtò il mio strumento.

Mi chiese scusa.

Sul palco.

Luci in faccia.

Strizzai gli occhi.

Misi a fuoco.

Un mucchio di gente.

“Sono un artista...” ripetei ricordarndo il cartellino.

Attaccai il jack.

Regolai il volume, il gain.

Equalizzai.

Bassi, medi, pochi alti.

Giusto il necessario.

Pizzicai due Mi bassi.

Suono appuntito proprio come da sound check.

Tutto ok.

Intro di chitarra.

Charleston, cassa, rullante.

Il caro vecchio quattro quarti.

E via...

La cantante attaccò con la sua splendida voce.

Glissai un Sol suonato sulla terza corda e steccai di brutto.

“Merda!” pensai.

Maledetto batterista!

Urtandomi mi aveva scordato la terza corda e io non me n'ero accorto.

Era troppo tardi per recuperare.

Ciò significava che oltre alla tensione dovevo pure pensare a non utilizzare una corda.

Il che rendeva decisamente tutto più complicato.

Me la cavai.

Eravamo la band che chiudeva il concerto.

Salirono tutti sul palco.

Pure Mark Harris.

Cantavano tutti e, anche solo per un pezzo, posso dire di avere suonato con Antonella Ruggiero.

Di averla accompagnata con un basso scordato.

Il festival si chiuse sulle nostre note.

"Ma dai rimani.." mi disse il batterista.

Non potevo.

E poi io e mio padre in macchina.

Un viaggio lungo mezza Italia di notte.

Lui che guida fino alle quattro e poi prendo il volante io.

In macchina poche parole.

Ore sette.

Giungiamo a destinazione.

Ore dieci e trenta ritiro il premio nella mia città natale con tanto di discorso e premiazione con il sindaco.

Rimaneva negli occhi e nelle orecchie il concerto e tutte le cose belle sentite, Mark Harris, Antonella Ruggiero, il tasterista di Lucio Dalla, il silenzio del viaggio con mio padre e la stecca con un basso non accordato.

stonato,
come sempre

charlieboy

domenica 10 marzo 2013

ad aspettare

vedo i miei rimpianti da lontano.
Come se appartenessero a qualcun'altro o meglio, come se non mi appartenessero più.
Mi resetto su ritmi di vita decisamente più "sani" e la sera, a letto con l'abat jour accesa, fisso il soffitto e mi fermo a pensare a quello che non sento più.
Come se l'avessi perso per strada, come se non facesse più male, come se, in modo del tutto incosapevole l'avessi risolto.
Alle volte rispiegarsi il perchè di certe cose è troppo complicato, è troppo lungo o semplicemente richiede troppe parole.
Anni e persone scivolate via, manco si trattasse che di pochi fotogrammi.
Guardo avanti e non c'è preoccupazione, ma solo un serenissimo punto interrogativo.
Nonostante lavori e nonostante sia già parecchio incasellato nella spirale lavoro-denaro affermo che non so ancora assolutamente cosa fare della mia esistenza.
Conduco la mia quotidianità o è la quotidianità a condurmi? Il dubbio è presentissimo.
Tengo aperti certi spiragli.
Altri li chiudo senza alcun dubbio.
Ho sempre l'impressione di vivere
aspettando sempre qualche cosa
charlieboy

martedì 5 marzo 2013

di più

Scrivo sempre le stesse cose.
Forse perchè penso sempre le stesse cose.
Penso sempre le stesse cose perchè non trovo una soluzione.
Non trovo le motivazioni e la forza per trovare un motivo in più del fottuto stipendio per andare ad immergermi in una realtà chiamata lavoro tutti i giorni.
Una realtà di mediocri.
Di gente mediocre.
Che di conseguenza ha fatto dell'invidia, del rosicare, "dell'odio", "their finest art".
Per dirla come direbbe Charles Bukowski.
Lui, che era tutto fuorchè un mediocre, seppelliva il suo disagio e quindi il suo dolore sotto litri di alcol. E poi le corse dei cavalli e le scopate di qua e di la.
Io non  so dove sbattere la testa.
Mi farei spedire su marte per evitare di vedere, di interagire, anche solo di parlare con certa gente.
Ma mi accorgo che tutta la pesantezza che sento dentro non se ne andrà, questa volta, scrivendo queste righe.
Il lavoro mi spaventa perchè temo che mi istituzionalizzerà prima o poi.
Che mi toglierà, più che darmi.
Che mi renderà uno zombie del cazzo, fottuto dai colleghi, dai responsabili, dai direttori e da tutte quelle teste di cazzo che sollevano per aria il dito indice ed esclamano: "così si fa'".
E quel che è peggio, fottuto lentamente. Un giorno alla volta.
Perchè quella gente la vedo tutti i giorni e so bene che non vale un cazzo.
E lo so perchè lo dimostra tutti i giorni.
Forse dovrei riuscire a dare molto di più.
A fare molto di più.
Ma questo è il meglio che mi riesce.
Forse dovrei bere di più.
O scommettere di più.
o scopare di più.
charlieboy